Il clima è ancora quello sessantottino e nell’Italia esacerbata da contrapposizioni ideologiche parlare di vicende intime significava essere esclusi da ogni processo creativo che ambisse al pur minimo riconoscimento culturale. Si imponevano nuovi miti, una forma di specie protetta del tempo, santoni in cattività, cantautori che meglio assecondavano col loro «impegno» le aspettative che certa ideologia andava generando, fiutando bene l’aria e soprattutto il vento che tirava. Completamente avulso da tutto ciò, Battisti, non apparteneva all’eletta schiera; se gliene fregasse qualcosa non è dato sapere. Certo, le accuse di essere un destroide, fatte anche di appropriazioni indebite che lo collocarono all’opposto e controvento, non lo scalfirono più di tanto. Non si premurò di smentirle e ripararsi sotto un simbolo meno inviso: la sua musica non aveva bisogno di viatici ulteriori, la sua libertà, il suo orgoglio non lasciavano spazio a compiacenti chiarificazioni. E ne pagò il prezzo. Più tardi, finiti gli anni ’70, epoca di riflusso, disimpegno, riscoperta del privato, piuttosto che capitalizzare il credito ora incondizionato, si congeda da quel pop che tanto strenuamente aveva difeso dalle intemperie del tempo, dalla pervasività ideologica. Inizia, così, con Panella un percorso sperimentale del tutto sordo alle esigenze del mercato, ai dettami delle multinazionali, ossequioso solo di ciò che stava al di sopra di tutto: la sua libertà; per la quale, un giorno, mise in gioco tutto e tutto si giocò. Così procedendo fece un’altra cosa; più precisamente rifece la stessa cosa: insensibile alle lusinghe più seducenti, alle blandizie dei tempi, si rimise controvento. Questa volta, il prezzo da pagare fu pure più alto. E non per caso: «un artista non può camminare dietro il suo pubblico ma davanti. È rischioso, ma è doveroso correre il rischio»/Lucio Battisti
Alfonso Leo
Lucio Battisti
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